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Macedonia: 'i giorni decisivi'

03/10/2001 -  Anonymous User

Riprendiamo un chiaro e scorrevole articolo concernente l'attuale situazione in Macedonia, scritto da Georgi Gotev e pubblicato nella versione in lingua bulgara dal quotidiano "Sega" l'1 ottobre. Il testo, in forma riassuntiva, si sofferma su tutte le questioni principali che investono in questo momento la Macedonia: dalla fine della missione "Essential Harvest", alle pressioni internazionali per far sì che vengano implementati gli accordi di Ohrid del 13 agosto, dalla smobilitazione dell'Uck al suo ingresso come forza politica, senza trascurare di fornire alcuni dettagli riguardo la presenza internazionale e il futuro assetto del Paese. Un articolo utile per chi in quest'ultimo periodo non ha seguito le vicende della Macedonia, per altro poco o per nulla visibili sulla stampa italiana.
La versione che presentiamo è stata pubblicata in lingua italiana dalla mailing list Notizie Est, che ringraziamo per la gentile concessione.(Articolo)

L'integrazione europea vista dalla Croazia

03/10/2001 -  Anonymous User

Il quadro delle controversie riguardanti la problematica dell'integrazione dei Balcani (o del Sud-est Europa) è determinata dal Patto di Stabilità e accessione. Il termine "accessione" indica l'adesione dei paesi coinvolti dal Patto (quindici paesi dell'Europa centrale, orientale e sud-orientale) all'Unione Europea (ma si riferisce anche all'integrazione strategico-militare nelle strutture della NATO).
L'intento essenziale del Patto consiste nell'adattamento giuridico (a più livelli: protezione dei diritti umani ma anche della proprieta' privata), economico (in primo luogo, apertura verso il libero mercato in senso neoliberista), militare, politico e sociale, da parte dei paesi coinvolti, ai criteri dell'Unione Europea. La stabilita' nella regione sottintende la normalizzazione nei rapporti tra gli stati membri del Patto, includendo in modo particolare anche i paesi che durante gli anni Novanta guerreggiavano tra loro. Tale normalizzazione avverrebbe mediante una serie di accordi e cooperazioni bilaterali e multilaterali regionali tra i paesi, in ogni campo della vita politica e sociale.
Il rispetto degli obblighi derivanti dall'appartenenza al Patto rappresenta per i paesi dei Balcani occidentali (paesi dell'ex-Jugoslavia piu' Albania, esclusa la Slovenia) un presupposto necessario per sperare in una futura integrazione europea. Ne deriva una secca alternativa: o accettano la cooperazione con i paesi vicini (anche coloro con i quali hanno avuto scontri violenti e armati) o sono esclusi dall'ambito dell'integrazione europea ed euroatlantica.
Il problema è che nessuno tra essi si vuole identificare come appartenente alla regione balcanica (salvo due eccezioni: Serbia/Montenegro - sebbene i montenegrini indipendentisti definiscono volentieri il Montenegro come un paese mediterraneo - e Macedonia). Gli albanesi del Kosovo, ad esempio, ripetono con insistenza che il Kosovo non appartiene ai Balcani, ma all'Europa. Altri dicono che il Kosovo - o anche l'Albania - è qualcosa di unico e non riducibile a determinazioni geopolitiche. In Croazia domina un sentimento condiviso: la Croazia è un paese mitteleuropeo o mitteleuropeo-mediterraneo, e i Balcani sono oltre la Drina (il fiume che divide la Bosnia dalla Serbia) o finiscono sul confine croato-bosniaco. Una ricerca recentissima dimostra che la maggioranza della popolazione croata rifiuta i popoli viventi ai confini orientali del paese (non soltanto Serbi, ma anche Albanesi, Macedoni, Bulgari...). Se non si tratta (piu') di odio, si tratta senz'altro di sentimenti negativi, collegati spesso a pregiudizi, secondo cui i popoli balcanici sarebbero costituiti da persone pigre, disoneste, sudice... Nonostante il fatto che la popolazione croata non rappresenti un'eccezione riguardo alle emozioni e agli stereotipi negativi nei confronti dei Balcani, sarebbe possibile concludere che essa e' un campione in questo campo.
Ma i sentimenti sono una cosa e gli interessi reali un'altra. Così, la destra radicale, nel novembre dell'anno scorso, è riuscita a raccogliere non piu' di seicento persone per protestare, secondo lo slogan: "no all'integrazione balcanica", contro un convegno del Patto, tenutosi a Zagabria (e al quale partecipava anche il presidente jugoslavo neo-eletto Vojislav Kostunica, che alla vigilia del convegno ha rifiutato di scusarsi per il comportamento del suo Paese durante la guerra).
La marginalita' della contestazione pubblica non significa però che non ci siano controversie molto acute attorno alle modalita' e agli scopi dell'integrazione.
Il problema principale è l'antitesi tra coloro che, da una parte, cercano l'integrazione nel contesto d'una emancipazione dall'etnocentrismo dominante negli anni Novanta e coloro che, dall'altra, approvano l'integrazione come una neccessita' imposta (questi ultimi naturalmente vogliono ridurre al minimo l'intensita' e la profondita' dell'integrazione e concentrarla sul piano economico e commerciale). La posizione "emancipatoria" potrebbe essere rappresentata dall'attuale Presidente della Repubblica Stipe Mesic. Ultimo presidente della Federazione Socialista Jugoslava e uno dei dirigenti principali del governo tudjmaniano (finchè nel 1994 non e' diventato "traditore nazionale", cioe' uno dei critici piu' duri della politica etnocentrista del governo e gia' nel 1995 testimone volontario davanti al Tribunale dell'Aja), nel 1994 ha dichiarato nel discorso alla Conferenza socialdemocratica regionale a Zagabria (a cui parteciparono, tra gli altri, anche i partiti divenuti ora elementi delle coalizioni governative in cinque stati ex-jugoslavi): "la Jugoslavia non può soppravivere perchè Milosevic non vuole nient'altro che la Grande Serbia e Tudjman risponde con un progetto di Grande Croazia. Ma e' un peccato che, per questo, la Federazione Jugoslava non sia in grado di ristrutturarsi democraticamente e di diventare un elemento della federazione europea futura". Mesic, come Capo del Stato, propone ora l'integrazione, senza dimenticare che è impossibile ricostituire ciò che e' stato separato in modo sanguinoso e tramite enormi crudelta'. Il presupposto necessario per una normalizzazione regionale e per la costruzione d'un buon vicinato con diverse forme di mutua cooperazione è doppio: da un lato e' necessario identificare e individuare la responsabilita' per i crimini di guerra e processare i colpevoli; dall'altro, sarebbe necessario scusarsi per quello che e' avvenuto durante gli anni Novanta (come ha dichiararato l'anno scorso nell'intervista alla radio indipendente Novi Sad 21 "sarebbe ottima cosa che tutti chiedessero scusa a tutti, perchè ogni parte ha un certo livello di responsabilita'"). Mesic personalmente ha chiesto perdono, l'anno scorso a Sarajevo, per i crimini commessi in Bosnia ed Erzegovina da parte croata. La scusa da parte montenegrina e' arrivata a Dubrovnik da parte del presidente Milo Djukanovic. Una semi-scusa da parte serba c'è stata quest'anno a Zagabria da parte del Ministro degli Esteri jugoslavo Goran Svilanovic (presidente di un partito partecipante alla gia' menzionata conferenza dal 1994).
Dunque, una risposta nel complesso affermativa alla normalizzazione e alla cooperazione universale che integri la regione in senso economico e umano, ma non in senso politico. Questo non significa che non ci siano i nostalgici jugoslavi. Ma anche questi ultimi hanno capito che l'integrazione politica non è - forse, oggi - realmente possibile. Tra essi lo scrittore Slobodan Snajder (nel periodo tudjmaniano praticamente in esilio in Germania, ora direttore del Teatro alternativo a Zagabria), che, quest'anno, durante una conferenza a Kragujevac (Serbia), ha detto che sebbene la Jugoslavia rimanga uno spazio culturale unitario, e lui si senta uno scrittore jugoslavo, non sarebbe realistico oggi pensare a ricostruire un stato comune.
D'altro canto, i rappresentanti dell'integrazione meramente economica e commerciale nascondono sotto il tappeto la storia recente, senza sentirsi colpevoli e senza insistere (per ragioni pragmatiche) sulla responsabilita' degli ex-nemici. Questa posizione è rappresentata in Croazia specialmente da alcuni uomini d'affari provenienti dall'HDZ, appartenenti all'ala "tecnocratica" del partito. Tra loro, Andjelko Herjavec, Presidente dell'industria confezionaria "Varteks" (ex-deputato parlamentare dell'HDZ e gia' Presidente della Federazione calcio croata, scomparso quest'estate in un incidente d'auto), ha guidato con successo un'attività commerciale a Belgrado. Altro nome noto e' il Presidente della Camera commerciale croata Nadan Vidosevic (gia' ministro tudjmaniano dell'economia e del commercio), che ha avuto successi di rilievo nel campo della ricostruzione, dello scambio commerciale e della cooperazione industriale. Costoro non discutono del passato: in questione sono soltanto gli interessi delle economie concorrenti nei mercati balcanici, orientati ad una mutua cooperazione per sopravvivere.
Proprio da questa posizione arrivano alcuni ostacoli ad un'integrazione che vada oltre il livello commerciale e significhi apertura dei confini.
La posizione pragmatica (o "tecnocratica"), in passato politicamente collegata ai rappresentanti del commercio illegale interetnico e interstatale (e si deve sapere che durante la guerra c'era un scambio commerciale tra tutte le parti belligeranti, ad esempio scambio di petrolio per munizioni tra Croati e Serbi, specialmente in Bosnia) ha perso i suoi partner naturali (forze politiche e finanziarie definite dagli ex-poteri nazionalisti). Così, se da una parte procede con gli accordi commerciali, allo stesso tempo produce (o cerca di produrre) diversi ostacoli per una piu' profonda cooperazione. Questo vale specialmente per la parte croata. Su questa posizione si attestano anche molti dipendenti dei livelli bassi dell'apparato statale. Questi ultimi creano complicazioni burocratiche, ad esempio a livello consolare, riguardo alla cooperazione culturale, sociale, e così via.
La seconda fonte di ostacolo è negli ambienti governativi. Come e' noto, le coalizioni governative sono molto eterogenee (questo vale in primo luogo per le composizioni dei governi croato e serbo), includono elementi di matrice nazionalista e non si possono definire emancipate dal etnocentrismo (ad esempio, l'HSLS in Croazia, o l'DSS in Serbia). A parole, tutti si proclamano a favore della cooperazione e dell'integrazione. Ma nella pratica alcuni funzionari cercano di rallentare il ritmo dell'integrazione: fare soltanto ciò che e' necessario per soddisfare le domande delle potenze internazionali e ciò che è utile dal punto di vista pragmatico è la loro prassi. Questa ritrosia alla realizzazione dell'integrazione prevista dal Patto, è stata per il Presidente Mesic una spinta per la critica durissima rivolta all'amministrazione croata (ma senza nominare le istituzioni e le personalita' che ritiene come responsabili) durante la visita del 1 settembre a Gradacac, in occasione dell'incontro con i membri della Presidenza bosniaca Beriz Belkic e Zivko Radisic: "la cooperazione bilaterale croato-bosniaca si potrebbe definire parzialmente soddisfacente, ma una parte delle strutture amministrative non ha fatto quasi niente per realizzare gli impegni provenienti dagli accordi stabiliti sulla base del Patto, in direzione dell'integrazione europea". Secondo Mesic, di questo sono responsabili anche le strutture bosniache.
Si potrebbe concludere che ostacoli all'integrazione si trovano ovunque, non soltanto in Croazia o in Bosnia. Da parte croata non c'e un entusiasmo per l'integrazione. Se questo significasse integrazione diretta nelle strutture economiche e politiche dell'Europa occidentale, la maggioranza dei Croati lo farebbe con grande gioia. Ma resta la neccessita' di rendersi conto che prima di tutto va presa in considerazione l'integrazione con i vicini d'Oriente. La minoranza che vuole la piena normalizzazione e l'integrazione piu' profonda resta a margine dell'opinione pubblica, così come, d'altra parte, la minoranza di destra radicale, contraria a ogni tipo di integrazione sovranazionale.

L'appello 'L'Europa oltre i confini': venerdì la consegna a Prodi

03/10/2001 -  Anonymous User

Venerdì 5 ottobre, a Trento, verrà consegnato nelle mani di Romano Prodi, Presidente della Commissione Europea, l'appello L'Europa oltre i confini per un'integrazione certa e sostenibile dei Balcani nell'Unione Europea. Saranno presenti alcuni dei firmatari trentini che hanno fortemente sostenuto l'iniziativa. Tra questi il parlamentare Giovanni Kessler, il vice-Presidente della Provincia di Trento Roberto Pinter, il Preside della Facoltà di Girisprudenza Roberto Toniatti e la Presidente della Regione Trentino-Alto Adige Margherita Cogo. Sono solo alcuni di coloro che in Italia, Europa e nei Balcani hanno voluto manifestare il loro appoggio all'appello per evitare che in Europa, dopo il crollo di quelli vecchi, si creino nuovi muri e divisioni.

Bosnia-Erzegovina. Il nuovo volto del corpo diplomatico

03/10/2001 -  Anonymous User

Serve molto tempo prima che un Paese riesca a modificare la percezione delle altre nazioni nei propri confronti, e questo accadrà anche alla Bosnia-Erzegovina. Spesso accade si sottovaluti l'importanza dell'immagine che si presenta nel mondo attraverso i propri ambasciatori. Questo è l'errore nel quale si è incorsi anche in Bosnia-Erzegovina: i frequenti scandali riguardanti gli ambasciatori bosniaci nominati in questi ultimi anni sotto forti pressioni dell'Sda, dell'HDZ e del SDS non hanno certo contribuito a diffondere un'immagine positiva e cristallina. Di questa ex-repubblica jugoslava.
Tra le più rilevanti fu la vicenda che coinvolse Muhamed Sacirbegovic, ex-ambasciatore negli USA e fortemente legato ad Alija Izetbegovic. Noto perché amante dei giochi d'azzardo decise di porre fine alla propria carriera diplomatica, iniziandone una da imprenditore, quando vennero alla luce i suoi sprechi di denaro pubblico. Ora al fianco di Milan Panic, ricchissimo imprenditore jugo-americano ed ex-primo ministro dell'ultima Jugoslavia, non diede mai alcuna spiegazione sui buchi di bialncio che gli venivano addebitati.
Al posto di Sacirbegovic divenne ambasciatore Husein Zivalj, braccio destro del ministro degli esteri della BiH, Jadranko Prlic ma anche quest'ultimo sembra destinato ad essere sostituito ed il nuovo candidato verrà a giorni nominato dal governo guidato dall'Alleanza.
Le polemiche riguardanti i diplomatici bosniaci oltre Atlantico colpiscono anche la missione della BiH presso le Nazioni Unite il cui primo segretario, Darko Trifunovic, si è alcune volte espresso con toni che in parte nascondevano le responsabilità serbe nelle operazioni di pulizia etnica durante la guerra ed ha sostenuto l'innocenza di un personaggio come Radovan Karadzic. Contemporaneamente ha accusato Izetbegovic di essere colpevole dei presunti massacri commessi contro i serbi a Sarajevo. A fronte di queste dichiarazioni, che hanno non poco scandalizzato la diplomazia americana, Husein Zivalj non ha espresso alcuna opinione (Slobodna Bosna 23.08.2001).
Altre polemiche coinvolgono Jadranko Prlic che come rappresentante dell'HDZ ha ricoperto la carica di ministro degli esteri della Bosnia-Erzegovina. Attualmente, dopo aver lasciato l'HDZ seguendo un umore politico dell'opinione pubblica in cambiamento, è vice-ministro nel nuovo governo guidato dall'Alleanza. Questo non impedisce che si parli di un possibile suo "viaggio" all'Aja. C'è chi afferma sia stato lui ad ordinare l'apertura di campi di concentramento vicino a Mostar dove tra il 1993 ed il 1994 vennero rinchiusi molti bosniaco-musulmani. 'Su quali siano in merito le mie responsabilità è competente solo l'Aja' ha dichiarato Prlic all'agenzia Onassa (29.08.2001).
Anche in seguito a questi passi falsi il nuovo governo della BiH è ora impeganto in una riorganizzazione del corpo diplomatico. Negli ultimi giorni di agosto sono stati licenziati 33 vecchi ambasciatori e promossi 28 di nuovi. Tra i nomi noti dei nuovi arrivati vi sono Zlatko Dizdarevic, giornalista e pubblicista, che andrà a Zagabria ed il sindaco del comune di Novo Sarajevo, Zeljko Komsic, che andrà a Belgrado. E' stato invece allontanato Todor Dutina, ex-ambasciatore a Ginevra, additato dalla stampa svizzera quale vicino collaboratore di Radovan Karadzic.
Con la caduta del governo dominato dai tre partiti nazionalisti (SDS, HDZ ed Sda) vi è la speranza che il nuovo corpo diplomatico possa dare nel mondo un'immagine migliore della Bosnia-Erzegovina. Già positivo che la presentazione della lista dei nuovi ambasciatori abbia sollevato pochissime polemiche. Tra le poche sorprese forse quella della permanenza di Emina Keco (link notizia fine agosto su rilascio passaporti strannier- archivio Bosnia) a Vienna. Non con lo stesso incarico però. Da ambasciatrice è passata al ruolo di responsabile della missione presso l'OSCE. Si è parlato ultimamente del suo coinvolgimento in una vicenda di riciclo di denaro sporco attraverso l'ambasciata bosniaca a Vienna ma la sua posizione sembra essere totalmente estranea ai fatti.
L'unico nome che invece un po' di clamore ha suscitato è stato quello di Talat Sulejmani, attuale capo della filiale Air Bosnia ad Istambul, e coinvolto in un traffico di clandestini che avveniva proprio grazie ai voli della compagnia bosniaca.

Serbia: discriminazioni contro i Rom

02/10/2001 -  Anonymous User

Una trentina circa di Rom, dopo essere stati buttati fuori dalle loro abitazioni in via Zimonjic, hanno vissuto negli ultimi tre mesi in uno dei parchi di Kostunjak (un quartiere di Belgrado). Queste persone stanno vivendo senza alcuna delle normali condizioni di vita quotidiana.
La municipalità di questa parte della città ha ordinato loro di lasciare anche questo luogo entro il 1 di ottobre. Goran Stojkovic, membro di una di queste famiglie, ha detto che non hanno ricevuto alcun tipo di aiuto, aggiungendo che l'unica organizzazione che si occupa dei loro problemi è l'Humanitarian Law Center, che si è appellata alle autorità affinché facciano qualcosa, ma che comunque, da esse, non ha ricevuto alcun riscontro.
Tanja Pavlovic-Krizanic dell'Humanitarian Law Center ha ribadito l'importanza di trovare dei fondi appropriati per queste persone, in modo che vengano sistemate adeguatamente, e ha aggiunto che l'inverno è alle porte e queste persone e i loro bambini non dispongono di vestiti adeguati.
Sempre questa organizzazione non governativa di Belgrado, ha richiesto, nei giorni scorsi, al ministro della polizia l'identificazione immediata di due poliziotti di Novi Sad, che sono responsabili per le percosse fisiche inflitte a E. M. (14 anni) e ai sui amici, due giovani Rom.
L'Humanitarian Law Center dichiara che i due poliziotti sabato scorso appena dopo la mezzanotte hanno percosso tre giovani Rom, senza motivo e senza che ci fosse da parte dei ragazzi alcuna provocazione.
L'Humanitarian Law Center si anche appellata alla polizia affinché svolga correttamente le indagini, in particolar modo nei casi in cui le vittime delle torture della polizia sono bambini.

Serbia: questioni consolari

02/10/2001 -  Anonymous User

Il Governo della Federazione di Jugoslavia ha preso la decisione di chiudere temporaneamente 13 ambasciate jugoslave: a Caracas, Santiago, Beirut, Dar El-Salaam, Lusaka, Nairobi, Accra, Conakry, Tashkent, Pyongyang, Yangon, Hanoi e Harare. Questa mossa mostra l'orientamento del governo e la precedente decisione circa la razionalizzazione delle missioni diplomatiche e consolari, ha riferito il segretariato federale. Ciò non significa degradare il livello delle relazioni diplomatiche con i paesi menzionati, che si rifletterebbe attraverso le ambasciate della FRY negli stati più vicini.
Mentre l'ambasciatore degli Stati Uniti in Jugoslavia ha ufficialmente riaperto il 28 settembre scorso la sezione consolare della ambasciata american, che era stata chiusa all'inizio dei bombardamenti della NATO.
William Montgomery ha dichiarato, durante la cerimonia di apertura, che i cittadini della Jugoslavia non saranno costretti a viaggiare a Budapest per ottenere il visto per gli USA. Quell'ambasciata, secondo le affermazioni di Montgomery, ha rilasciato dal marzo 1999, circa 20.000 visti ai cittadini della Jugoslavia.
Alla domanda se i recenti attacchi agli USA potrebbero creare dei problemi per chi richiede il visto, Montgomery ha risposto che verranno applicati i criteri standard, ed ha aggiunto che l'America, naturalmente, terrà presente le adeguate misure di sicurezza.

Croazia: sostituito il direttore dell'Istituto Nazionale di Statistica

02/10/2001 -  Anonymous User

Il direttore dell'Istituto Nazionale di Statistica, Ivan Rusan, è stato sostituito in seguito alle pesanti critiche da parte del Governo in merito alle informazioni catastrofiste rese note dall'Istituto sulla situazione economica del Paese. La notizia viene commentata da Sanja Kapetanic (Vjesnik, 24.9) la quale evidenzia come il Governo sembra coprire le proprie difficoltà, in particolare riguardanti l'incompetenza di numerosi dei sottosegretari di nomina governativa, accusando persone che ricoprono incarichi prevalentemente operativi.
Secondo il presidente del Comitato di Helsinki per i diritti umani, Zarko Puhovsnki (Jutarnji list, 27.9) le vere motivazioni alla base della rimozione dall'incarico di Rusan sarebbero le forti difficoltà del Governo nel chiarire i radicali cambiamenti della struttura etnica del paese negli ultimi dieci anni. I cittadini della comunità croata sarebbero infatti passati dal 76% al 93% a scapito soprattutto della comunità serba passata dall'11% al 4-5%. Gli appartenenti a minoranze sarebbero oramai in Croazia meno di 60.000.

Dieci anni di cooperazione nei Balcani: il 24 novembre un seminario

01/10/2001 -  Anonymous User

Pienamente operativo l'Osservatorio sui Balcani.

Macedonia: gli ostacoli alla pace

01/10/2001 -  Anonymous User

Il rappresentante per la politica estera e la sicurezza dell'Unione Europea, Javier Solana, arriverà nei prossimi giorni a Skopje. L'intento di Solana è quello di accelerare le modifiche costituzionali che garantirebbero maggior diritti alla minoranza albanese. Una prima risposta positiva agli emendamenti costituzionali, in armonia con gli accordi di Ohrid firmati il 13 agosto scorso, è venuta dal Parlamento la scorsa settimana con l'accettazione degli emendamenti proposti da parte della maggioranza relativa dell'aula. Ciò che a fatica il parlamento macedone riuscirà ad accettare è la questione riguardante l'amnistia dei guerriglieri albanesi. Secondo le informazioni ufficiali, l'Esercito di Liberazione si è formalmente disciolto, i guerriglieri, dopo la consegna delle armi, hanno abbandonato le divise militari e si sono ritirati da tutti gli avamposti, lasciando solo un piccolo centro di comando. Attualmente è soprattutto il premier di governo Georgievski a frenare la questione riguardante l'amnistia. Quest'ultima potrà essere proclamata dal Parlamento, ma, come conferma l'agenzia Beta, non è credibile che a Skopje la necessaria maggioranza parlamentare voterà questa decisione. Legato a questa decisione ci sarebbe anche l'inizio del rientro delle forze macedoni nelle regioni controllate fino la 26 settembre dalla guerriglia albanese. Le forze di sicurezza macedoni dovrebbero rientrare, come vuole il governo, quanto prima nei territori di frontiera con il Kosovo e la Jugoslavia. Il rientro delle forze di sicurezza è previsto in due fasi. Durante la prima fase le forze di stato dovranno ritornare nelle regioni che erano sotto il controllo dell'UCK, ma la composizione di suddette forze dovrà corrispondere alla composizione degli abitanti delle regioni coinvolte, quindi prima di tutto albanesi. Nella seconda fase è prevista la completa smobilitazione dei riservisti della polizia e dell'Esercito macedone, mentre le unità regolari dell'Esercito dovranno controllare l'intera regione. L'inizio delle operazioni è attualmente bloccato proprio per contrasti tra il governo macedone e i rappresentati della Nato e dell'UE (Cfr. Danas, 1-10).
Nel frattempo la stampa macedone, sfruttando l'ondata di terrorismo negli USA e le misure di sicurezza messe in atto dai paesi occidentali, lancia grida di allarme su di un ipotetico coinvolgimento del ricercato numero uno, Osama Bin Laden, nelle cosiddette azioni terroristiche in Macedonia. Secondo un dettagliato articolo pubblicato dalla Rete di Informazione Alternativa (AIM), "I politici macedoni hanno visto nell'attacco terroristico compiuto contro il World Trade Center di New York e il Pentagono a Washington un'ottima occasione per collegare il terrorismo in America e le azioni dell'Esercito di Liberazione Nazionale (UCK), la cui attività viene ritenuta direttamente terroristica" (vedi la tr. it. nel numero #476 di Notizie Est). Quasi tutti i maggiori quotidiani macedoni hanno approfittato della situazione per informare i loro lettori sulle presunte relazioni di Bin Laden in Macedonia, fornendo perfino, un manuale per il riconoscimento del "mujahedin tipico", con il risultato che alcuni lettori immediatamente hanno riconosciuto qualche mujahedin nelle sale da tè dove normalmente si riuniscono gli albanesi locali. Immediate le reazioni del rappresentante americano James Pardew, che ha accusato i politici macedoni di voler abusare degli attacchi terroristici in America per ostacolare la messa in atto degli accordi di pace.
Mentre il ministro della difesa Buckovski, durante la sua recente visita in Albania, ha affermato che in territorio albanese si sarebbero ospitati capi di addestramento di combattenti che hanno agito in Macedonia. Scontata la reazione del ministro della difesa Pandeli Majko che ha negato la circostanza e si è dimostrato disposto a procedere nella verifica delle accuse presso una commissione di inchiesta.

Vedi anche:

NotizieEst

L'integrazione europea vista dalla Serbia

01/10/2001 -  Anonymous User

Though, in principle, the decision to the dilemma seems quite obvious, since staying out of where all the rest are heading is equal to political suicide and economic disaster, there are still dissenting voices in the country. The recent open clash with most western governments over Kosovo has made some of the population additionally xenophobic. One cannot expect majority of people to get too inspired with the idea of democracy and values common to major western powers (most of which are European) after experiencing cruise missiles and smart bombs as heralds of the very democracy. In view of that fact, an average Serb can be even described as pretty tolerant: here one should remember the words of the American ambassador to Belgrade, Mr. William Montgomery, who recently stated he never actually believed an American would be able to freely walk in the streets of Belgrade so soon after the bombings ended. Since Americans top the list of villains in the eyes of the common folk, then Europeans are in a still better situation. No European, even a German, traditionally (and sometimes unfairly) seen as a long-time enemy of the Serbs, has had any particular problems with the citizens of Serbia, even those most radical ones.

Opinion Polls

Asked whether they believe integrating into Europe would be the best solution for the country, a majority of those taking part in the polls have said yes (the figures reached 91% according to the Markplan marketing agency). However, when asked which country Serbia should turn to as a long-term ally, dissenting voices could be heard. Most elderly people and former regime supporters would pin point Russia, although historians often remind the population here that Russia's affinity to Serbia has long been just a tempting myth of Slavic unity and that this country has never actually sided with Serbs when it was needed most. Out of the EU countries, France is often described as "the biggest disappointment" due to its very active support of the hardline policy against Serbia in the years behind us. As already mentioned, Germany is traditionally seen as an "occupational" force, and its recent active role in support of Slovenia's and then Croatia's independence is also often pointed out. However, some (a minority) believe cooperation with Germany has always been historically productive, and there is a number of intellectuals and, especially businessmen, led by prime minister Djindjic, who have been working on close ties with this country. Italy is seen as much more tolerant of Serbian mischiefs in the previous years, but it is also not considered very influential in key decision making. Finally, smaller EU countries, such as Greece or Portugal are perceived by the population as very friendly, but with no influence whatsoever on major issues in the EU. As for the 'Balkanite integrations', that is the idea that there should be a 'Balkan union' first which would then collectively be integrated into EU one day, most Serbs are skeptical. Apart from the elderly again, who incorrectly view this as a revival of the idea of the former Yugoslavia, most people are wary. Although the common answer on the street is that "no Croat or Slovene would ever agree to any kind of reunion" it seems that this is only a pretext which hides the Serbs' equal reluctance to reunite, even only economically. Economic interests are, however, dominant and there have been numerous visits by businessmen from the neighbouring countries (Croatia included) and initial contacts have been made so far in order to make Balkans a "customs free zone". Not much, but, knowing the situation, a good start.

Parties' Opinions

When asked when they believe Serbia (or Yugoslavia if it remains united) would enter the EU the answers in a last year's poll ranged from optimistic (5-7 years, around 20% of the subjects), through reasonable (about 10 years, 47%) to pessimistic (at least 20 years or more, 33%). Since this research is a bit outdated, it would be fair to connect today's support of the parties and coalitions on the Serbian political scene with the voters' view of European integrations. Socialist Party of the former president Milosevic is said to be supported by around 10% of the voters today. Alongside this party, today's opposition also comprises the hardline Serbian Radicals and the uninfluential Yugoslav Left. Together, they are supported by 16% of the population, most of whom share their well-known views of Serbian foreign policy, described as "cooperation - yes, surrender - no", which implies the notorious North-Korea-like fear of world conspiracy, stern anti-Americanism and the appeal for sovereignty in the 19th century sense of the term.
The results of such a policy are well known, so, luckily, most Serbian voters today see the future of their country in Europe, rather than in Russia, China or India. Among these, around 30% support Democratic Party of Serbia of president Kostunica. This party is seen as moderately nationalistic, and it seems this attitude is still dominant in most Serbs. Its foreign policy program reads "... Serbia must fight for its national and state interests with no confrontation with the world, but without accepting unnecessary concessions which would hinder its national and state interests..." This could be seen as a rigid view, although not hardline - at least open confrontation is to be avoided. But, since DSS's program defines Serbia as a national state, too obvious inclination towards the EU is not to be found in their policy. Democratic party of prime minister Djindjic and its allies in the ruling DOS coalition are today supported by around 15% of the voters (although their real influence in the country is crucial, which is the source of wrangles in DOS every now and then). They are clearly in favour of a new Serbia within the EU: "... The Democratic Party sees the future of the Serbian people and all the citizens of our country only in the European integrations...", its program says. By this they mean economic integration primarily, and this is what younger and more educated Serbian voters favour. Finally, within DOS coalition there are even more radical supporters of this tendency, lead by the Movement for Democratic Serbia, whose president is a former Yugoslav Army general, who believe Serbia should enter Partnership for Peace as soon as possible (incidentally, the Federal Government last days decided to consider applying for this program). In addition, the New Democracy party, a centrist one lead by police minister Dusan Mihajlovic has more than once insisted that Serbia should enter NATO outright - the sooner the better. But this kind of hurry is not seen as either commendable (having in mind the most recent history) or rational (knowing that any country cannot enter NATO just because it wants to right away).

NGOs' Opinions

NGOs in Serbia work on the idea of European integrations as well. Although projects directly aimed at launching Serbia into the EU very soon are practically nonexistent, it would be fair to notice that, in a more general way, the long term goal of all NGO activities in the country today is to make Serbian civil institutions live up to the European standards, and therefore, make the country capable of joining the integrations in the near future. Solving refugee problems, integrating them into the new environment, working on human rights issues (including ethnic minorities, but also women, children, the disabled etc.), organizing schools for democracy and workshops cherishing tolerance - all these activities help the country develop standards long respected in the democratic world.
There are some programs, however, which can more directly be seen as aiming at the integration process. The Committee for Civic Initiative in Nis, an NGO gathering University professors and assistants in humanistic sciences, has launched a couple of projects in this direction. The approach is by definition piecemeal. The program School for Democracy, organized in cooperation with Fund for Open Society, consisted of a series of 52 lectures whose purpose was to introduce basic concepts of a democratic society to the population. 'Politics from A to Z' was a project whose aim was to give basic training to young political party members from the local boards. They were taught dialogue conducting, rhetoric, basic logic and specialized English. A similar project is pending in which young journalists from numerous local TV and radio stations should be trained in the view of changing conditions in society. Modern politicians and journalists are perhaps a key to a near future in which public activities will be conducted in the democratic spirit, and in accordance with the principles and values of the European Union.
However, the most important project currently planned is the School of Social Sciences, where in cooperation with the Faculty of Philosophy in Nis a specific kind of studies, primarily aimed at social science postgraduates, would be introduced. It would comprise compulsory courses in societies in transition (privatisation, reform, political parties, trade unions, civic society, social policy) and multiculturalism (culture, multiculturalism, interculturalism, models of cultural policy in the CEE countries) and some optional courses in the realm of human rights. The idea is that the serious education of young people in the area of values mostly cherished in Europe today would in the long run help the entire country live up to the standards imposed by the EU and thus be accepted one day as a full-fledged member of the European community of nations. This project is still in need of funders.
It seems, finally, that the tendency to develop Serbia in such a way as to make it closer to the European integrations is obvious. It also seems there is a general agreement in the population that this is necessary. However, how this will be done, and how much time and hard work it will take, is still not quite clear.

L'integrazione europea vista dalla Bosnia Erzegovina

01/10/2001 -  Anonymous User

Tra gli eurocrati di Bruxelles c'è una lobby che crede sia meglio per l'Europa favorire l'integrazione dei Balcani, anziché ghettizzarli ai propri margini. E' vero che il Patto di Stabilità non ha ancora fatto granché, ma è incoraggiante già solo il fatto che l'Europa inizi ad occuparsi di questo problema. In Bosnia Erzegovina il pensiero più diffuso riguardo all'integrazione è che sarà un percorso molto lungo e molto lento, e che i paesi balcanici entreranno in Europa come paesi singoli anziché tutti insieme su base regionale. Così la pensa ad esempio Maria Todorovna, nota sociologa bulgara, in un'intervista
rilasciata il 10 agosto scorso a Slobodna Bosna.

Ma la gente comune si augura che non sia proprio così, cioè che la strada per l'Europa sia meno lunga e che si riesca ad entrarci assieme, o per lo meno prima della (attuale) Jugoslavia e non dopo la Croazia. La nuova/vecchia competizione prosegue...

Il Consiglio d'Europa, almeno...

Proprio in questi giorni doveva giungere la risposta alla richiesta della Bosnia di entrare nel Consiglio d'Europa. Ma la persona incaricata di scrivere il rapporto sulle condizioni del paese per l'entrata nel Consiglio d'Europa, Laslo Surjan, non ha potuto partecipare alla riunione del 3 e 4 settembre a Tbilisi. Il suo rapporto perciò è pronto, ma non è ancora stato presentato ai membri
della 'giuria' e sembra addirittura che la decisione definitiva si possa avere solo nel gennaio del 2002. Nel frattempo, tutti i tre presidenti della Bosnia, il Presidente del Consiglio dei Ministri e i Presidenti dei Parlamenti faranno una dichiarazione scritta, nella quale si assumeranno la responsabilità di garantire tutte le condizioni imposte dal Consiglio d'Europa.

A questo proposito sembra che un passaggio molto importante sia stato compiuto pochi giorni fa. Dopo vari tentativi, infatti, il Parlamento ha approvato una nuova legge elettorale, condizione essenziale per potersi candidare al Consiglio d'Europa. Certo, non tutti sono rimasti soddisfatti, alla fine ha vinto il compromesso, ma quello che conta è soprattutto il risultato: l'approvazione della legge elettorale. Questo, per quanto riguarda le istituzioni politiche e il loro impegno.

Cosa ne pensa la gente?

Ma la gente in Bosnia, cosa pensa dell'integrazione? Si interessa soprattutto dei risvolti pratici e
non vede l'ora che cadano le tante barriere ancora esistenti. "Quello che ci disturba sempre di più - dicono i cittadini bosniaci - sono i visti. E' una umiliazione: devi andare a fare la fila per 200 metri, aspettare giorni e giorni, e poi chi sa se te lo danno, il visto. Prima, nel periodo di Tito potevamo viaggiare in tutta l'Europa senza il visto. Oggi ci sentiamo così piccoli!". E poi c'è la rabbia perché, ad esempio, con il passaporto croato si può entrare nei paesi Schengen senza visto, mente con quello bosniaco serve il visto.

La difficoltà di muoversi crea molti altri problemi, anche economici. Gli imprenditori di tutti i paesi entrano in Bosnia Erzegovina senza problemi, mentre un imprenditore bosniaco fatica ad uscire dal paese per realizzare i suoi affari. In questi ultimi mesi, poi, la situazione è peggiorata. I pochi consolati (come quello italiano) che, ancora un paio di mesi fa, non erano così rigorosi, ora lo sono
diventati. "Ti chiedono l'impossibile" si lamentano i cittadini.

Certo, la gente pensa alle cose pratiche. E per questo ci vuole l'Europa: per non essere allo sbando, per non sentirsi isolati. I paesi ex jugoslavi sono stati devastati dalla guerra ed hanno un'economia a terra. Oggi per la gente di qui Europa significa soprattutto benessere, prospettiva, vita normale. E' quello che manca. Ma il viaggio verso l'Europa per i Bosniaci è ancora molto lungo. E non dimenticate il visto, vi prego!

Balcani: un altro 'sviluppo' è possibile

01/10/2001 -  Anonymous User

1991: inizia la disgregazione jugoslava e si creano nuovi stati nei Balcani. 1995, Accordi Dayton: si fermano le guerre e inizia la cosiddetta "ricostruzione". 1997, Operazione Alba: anche in Albania, dopo la crisi delle finanziarie e l'uscita di scena del vecchio governo, dovrebbe iniziare un nuovo corso istituzionale. Oggi, 2001, cosa esiste di Stato nei Balcani? E di conseguenza, che sviluppo economico si può immaginare?
Il semplice riferirsi ai dati statistici esistenti offre un'immagine assolutamente deformata del contesto economico del sud-est Europa. Questo sia per effetto dell'incidenza degli aiuti internazionali sull'andamento del PIL - indice che peraltro già di per sé induce ad antichi errori - sia perché tali statistiche molto spesso indicano una verità astratta. Valga per tutti l'esempio dei dati sull'occupazione, che ancora considerano i dipendenti dei grandi combinat statali in agonia già da prima delle guerre. Sfugge perciò ad un approccio superficiale la situazione di grave crisi fiscale in cui versano tutti gli stati dell'area balcanica.
Queste piccole entità nazionali, uscite da un decennio di devastanti conflitti, sono oggi in condizioni di vera e propria paralisi: mancano entrate tributarie stabili, perché non c'è lavoro regolare e l'economia esistente è in gran parte informale o addirittura criminale. Gli unici introiti significativi vengono dalle risorse non ancora privatizzate - molto spesso a scapito dei già precari equilibri ambientali - o dai programmi di aiuto internazionali, delineando così una condizione di dipendenza che rischia di divenire strutturale. È così che pensioni e stipendi pubblici, già di per sé esigui, si ricevono con grave ritardo o non vengono pagati affatto, com'è successo recentemente per gli insegnanti della Bosnia Erzegovina, portando alla chiusura delle scuole per due mesi. Anche gli ospedali riescono a gestire quasi solo le emergenze, i servizi pubblici sono al collasso, le istituzioni di assistenza sociale si trovano abbandonate a se stesse e alla disperata ricerca di qualche donatore.
Tutto ciò crea una fortissima frustrazione, specie in relazione alle aspettative di cambiamento positivo sorte con la fine delle guerre. Addirittura si è raggiunto il paradosso - purtroppo già visto nelle transizioni dell'est europeo - che alla fine dei regimi corrisponde un peggioramento generalizzato delle condizioni di vita per le componenti sociali estranee ai business. Una situazione che si riverbera anche sulle amministrazioni locali, rendendo ancora più problematico il rapporto fra cittadini e pubblica amministrazione.
È invece necessario ricostruire un rapporto virtuoso fra cittadini e pubblica amministrazione, fra cittadini e comunità, fra cittadini e territorio, per sfuggire all'assistenzialismo umanitario tanto quanto alle chimere degli investimenti occidentali di rapina. Si tratta di una questione vitale, che investe il rapporto fra aiuti internazionali, risorse locali e approcci culturali.
Il problema è che da quest'altra parte dell'Europa, quella ricca e politicamente definitasi con autosufficienza Unione Europea, si continua a non riflettere sulle tragedie degli anni '90 e a pensare ai paesi balcanici solo come terreno di incursione. Si persevera così nella ricerca -ormai fuori del tempo, ma ancora foriera di effetti disastrosi - di proprie aree di influenza nazionale, senza traccia alcuna di un approccio d'area. Oppure si interviene con una logica puramente emergenziale, per poi affidarsi nella ricostruzione al presunto potere taumaturgico dell'economia di mercato e della sua capacità di autoregolamentazione.
L'assenza di una strategia di fondo delle istituzioni internazionali, di un loro progetto complessivo per l'area che fosse scevro da intenzioni miopi, ha lasciato così mano libera alle forme più perverse dell'economia finanziarizzata. Esse hanno potuto fiorire proprio dentro la guerra, luogo per eccellenza della derogazione estrema, cosi come nel traffico d'armi, nel riciclaggio, nel traffiking, nel mercato della droga e in quello dei rifiuti.
Per ribaltare questa deriva politico-culturale occorre invece un'idea alta, che riempia il vuoto progettuale della diplomazia ufficiale e, a ragion del vero, anche di molta parte del mondo non governativo. Quest'idea può essere l'Europa, ossia l'immagine di come si possono superare e sciogliere gli angusti spazi mono-nazionali in un progetto più ampio e non solo balcanico. Ma per garantire al modello istituzionale un futuro economico e sociale occorre avviare un novo itinerario di ricostruzione economica , sociale, ambientale e democratica di questa parte tanto importante del vecchio continente. Un itinerario che si incardini su due concetti di fondo: l'opzione per uno sviluppo locale autocentrato quale criterio di rinascita economica, e l'autogoverno delle comunità come strada per ricostruire coesione ed identità sociale. Sviluppo locale e autogoverno da non vedere come romantica illusione di uno sviluppo alternativo dolce rispetto al modello occidentale, ma come unica via d'uscita a quell'implosione della statualità di cui si è parlato sopra.
In particolare è necessario ripensare il modello di sviluppo economico di queste aree: quando si propone l'economia di mercato in realtà si continua a guardare al vecchio apparato produttivo pre-bellico. Ma è un modello non più riconvertibile, fortemente centralizzato e piramidale, malato di gigantismo, privo di qualsiasi sensibilità ambientale e modellato su un mercato, quello dell'allora Jugoslavia, che non esiste più.
Riproponendolo si rischia di imboccare una strada priva di prospettive, e funzionale solo all'investimento mordi e fuggi oppure al rilancio dei vecchi apparati di controllo delle grandi aziende di stato.
Le particolari ed inedite condizioni di transizione post comunista e post bellica nelle quali si trovano i paesi dell'area balcanica richiedono invece risposte altrettanto originali. Bisogna far leva sulle potenzialità materiali ed ambientali del territorio ed attivare le risorse umane, che pure esistono, data l'alta scolarità diffusa e per molti l'esperienza formativa all'estero. Si può invertire forse in questo modo il clima esistente di diffusa deresponsabilizzazione individuale e collettiva, principale retaggio culturale del passato. Per far ciò bisogna immaginare un percorso economico fortemente intrecciato ai saperi e alle intelligenze locali, alle tradizioni culturali e alle nuove sensibilità ambientali, disegnando uno sviluppo integrato del territorio su cui far convergere le risorse residue e gli aiuti internazionali. Un disegno fondato da un lato sulle professioni della qualità, ad alta intensità umana e creativa e dall'altro sul settore primario, con progetti partecipati in agricoltura, zootecnia, indotto dei servizi, dell'artigianato e dell'industria di trasformazione, ma anche turismo rurale e termalismo. Al servizio di ciò va costruito un sistema di micro-finanza locale, che dia accesso al credito anche a chi non si è arricchito dai profitti di guerra.
Questo approccio ha come caratteristiche fondamentali di essere endogeno; di contare sulle proprie forze (risorse naturali, umane, finanziarie, organizzative); di prendere come punto
di partenza la logica dei bisogni (salute, istruzione, trasporti, infrastrutture collettive, ecc.); di dedicarsi a promuovere la simbiosi tra le società umane e la natura; di restare aperto al cambiamento istituzionale.
Un altro sviluppo è dunque possibile. Richiede da un lato un contenitore ampio e partecipato, come dovrebbe essere un'Europa allargata fatta dai territori e dalle comunità anziché dai governi e dalle banche. E dall'altro un sistema economico che parta dal locale, e dal positivo che ancora vi si trova. E' una sfida grande che ci riguarda, che riguarda l'insieme dell'Europa, la nostra e quella al di là del mare.

di Michele Nardelli

Transizioni post-coloniali e post-socialiste. I Balcani e le integrazioni

01/10/2001 -  Anonymous User

Sunto dell'intervento alla Conferenza "Di-Segnare l'Europa. I Balcani tra integrazione e disintegrazione", Padova 5 maggio 2001.

"Transizione" è una parola che è tornata in uso dopo la caduta del Muro di Berlino, per caratterizzare la cosiddetta transizione post-comunista. Prima di ciò il termine era stato usato per descrivere le transizioni dalla dittatura alla democrazia. Tale parola risulta comunque non ben definita, e di solito ha in sé una certa dose di trionfalismo per la restaurazione del capitalismo occidentale.
Vorrei parlare più dell'integrazione europea all'interno del contesto della globalizzazione, che della sola transizione post-comunista che è veramente un¹espressione limitativa per varie ragioni. Lo è non solo perché il Muro è caduto da entrambe le parti e non solamente da una, ma anche perché la dicotomia della guerra fredda Est-Ovest, Capitalismo-Comunismo, ha ricevuto un colpo e non si può dire che il Comunismo sia fallito da solo: si è rotto l¹intero equilibrio di vasi comunicanti. Il termine ³¹transizione² è limitativo anche perché l¹integrazione dell¹Europa deve essere vista nel quadro più grande della globalizzazione nel suo insieme, sia quella di Davos, sia quella di Porto Algre nel 2001.

Il mio lavoro sul post-colonialismo in alcuni paesi, sulla divisione del subcontinente indiano e sulle divisioni comprate, mi ha convinto che le transizioni post-coloniali assomigliano alle transizioni post-comuniste, o comunque che le difficoltà di sviluppo del Terzo Mondo assomigliano sempre di più a ciò che noi vediamo in alcuni paesi dei Balcani e dell'Europa dell'Est, se non in tutti i paesi dell¹Europa centro-orientale. Possiamo allora imparare qualcosa da quell'esperienza.



Rada Ivekovic - University of Paris-8;

Europa: una parola chiave per il futuro dei Balcani

01/10/2001 -  Anonymous User

Oggi nell'immaginario dei paesi dell'area balcanica si incontra spesso una parola chiave: Europa. Non si tratta solo del richiamo ad un'appartenenza storica, peraltro niente affatto scontata se pensiamo alla sufficienza e al distacco con cui nell'intero '900 è stato trattato il sud est europeo. E non si tratta nemmeno soltanto di una riscoperta tardiva dello straordinario intreccio di culture al di là dell'Adriatico, per secoli quasi ignorato dal vecchio continente che non riusciva a leggervi la propria immagine riflessa.
Per i Balcani Europa oggi è soprattutto l'idea di fluidificare in un'entità più ampia gli incerti contesti nazionali usciti dalle guerre dell'ultimo decennio. Di pensare che il virus nazionalistico che ha fatto da sfondo e da maschera ideologica al disintegrarsi della nazione degli slavi del sud - e con esso alla crisi delle ideologie novecentesche - va affrontato superando gli angusti richiami ai mille possibili quanto improbabili "fondi genetici". Occorre al contrario definire uno spazio più ampio di riferimento, nel quale disegnare il futuro delle terre balcaniche.
Questo spazio virtuoso si chiama Europa, l'unica immagine forse in grado da un lato di superare le chiusure nazionalistiche dei micro-confini, e dall'altro di respingere la tentazione di trasformare l'intera regione nel paradiso senza regole dell'off shore. Prospettiva quest'ultima che accade talvolta di sentire apertamente teorizzata, pensando i futuri Balcani come zona franca da regole di civiltà economica e giuridica.
Il problema è che da quest'altra parte dell'Europa, quella ricca e politicamente definitasi con autosufficienza Unione Europea, si continua a non riflettere sulle tragedie degli anni '90 e a pensare ai paesi balcanici solo come terreno di incursione. Si persevera così nella ricerca -ormai fuori del tempo, ma ancora foriera di effetti disastrosi - di proprie aree di influenza nazionale, senza traccia alcuna di un approccio d'area. Oppure si interviene con una logica puramente emergenziale, per poi affidarsi nella ricostruzione al presunto potere taumaturgico dell'economia di mercato e della sua capacità di autoregolamentazione. Si dimentica così, tra l'altro, che le tragedie di questi anni non sono per nulla estranee alle stesse forme attraverso cui il libero mercato, nelle sue moderne versioni mondializzate, si è organizzato e ha influito dopo l'89. In ciò si è trovato certamente un fertile retroterra nello sfascio dei regimi comunisti e nella natura centralistica e piramidale - quasi sempre di tipo banditesco - dell'economia di stato, basata sull'intreccio tra potere politico e apparato burocratico. E hanno influito anche la deresponsabilizzazione collettiva e l'assenza di difese culturali diffuse, eredità perversa di regimi che hanno segnato e impoverito in profondità i loro corpi sociali.
L'assenza di una strategia di fondo delle istituzioni internazionali, di un loro progetto complessivo per l'area che fosse scevro da intenzioni miopi, ha lasciato mano libera alle forme più perverse dell'economia finanziarizzata. Esse hanno potuto fiorire proprio dentro la guerra, luogo per eccellenza della derogazione estrema, cosi come nel traffico d'armi, nel riciclaggio, nel traffiking, nel mercato della droga e in quello dei rifiuti.
Per ribaltare questa deriva politico-culturale occorre dunque un'idea alta, e quella di Europa può esserla. Sta qui, attorno a questo nodo cruciale, la possibilità di superare il vuoto progettuale che caratterizza la diplomazia ufficiale e, a ragion del vero, anche molta parte del mondo non governativo. Si tratta di riempire il vuoto tracciando un possibile itinerario di ricostruzione economica , sociale, ambientale e democratica di questa parte tanto importante del vecchio continente. Senza ripetere la stanca parodia degli investimenti occidentali, che sono destinati ad impoverire quei territori, e ricercando invece strade nuove.
Un percorso di ricostruzione simile andrebbe incardinato su due concetti di fondo: l'opzione per uno sviluppo locale autocentrato quale criterio di rinascita economica, e l'autogoverno delle comunità come strada per ricostruire coesione ed identità sociale. Due idee - lo sviluppo locale e l'autogoverno - che non sono affatto la romantica illusione di uno sviluppo alternativo dolce rispetto al modello occidentale, ma l'unica via d'uscita all'implosione della statualità vissuta nel sud est Europa. Gli stati nazionali usciti da un decennio di devastanti conflitti, infatti, sono oggi in una vera e propria paralisi fiscale: mancano entrate tributarie stabili, perché non c'è lavoro regolare e l'economia esistente è in gran parte informale o addirittura criminale. Gli unici introiti significativi vengono dalle risorse non ancora privatizzate - molto spesso a scapito dei già precari equilibri ambientali - o dai programmi di aiuto internazionali, delineando così una condizione di dipendenza che rischia di divenire strutturale. È perciò necessario ricostruire un rapporto virtuoso fra cittadini e pubblica amministrazione, fra cittadini e comunità, fra cittadini e territorio, per sfuggire alle chimere degli investimenti occidentali di rapina e parimenti all'assistenzialismo umanitario. Si tratta di una questione vitale, che investe il rapporto fra aiuti internazionali, risorse locali e approcci culturali.
Se queste sono le premesse, il vecchio modello economico del sistema industriale pre-bellico non è più proponibile, perché affetto da gigantismo, gerarchia del comando, condizioni di mercato radicalmente mutate, arretratezza degli impianti e perdita di competenze tecniche a causa della guerra. Occorre invece un'impostazione radicalmente nuova, che porti con sé risvolti sociali, economici e culturali in parte inediti per i Balcani. Girare pagina infatti significa immaginare un percorso economico fortemente intrecciato ai saperi e alle intelligenze - che non mancano, data l'alta scolarità diffusa e per molti l'esperienza formativa all'estero - unite alle tradizioni culturali e alle nuove sensibilità ambientali. Bisogna costruire un disegno di sviluppo integrato del territorio, sul quale far convergere le risorse locali e gli aiuti internazionali. Un disegno fondato da un lato sulle professioni della qualità, ad alta intensità umana e creativa, e dall'altro sul settore primario dove convivano e si integrino progetti partecipati in agricoltura, zootecnia, indotto dei servizi, dell'artigianato e dell'industria di trasformazione, ma anche turismo rurale e termalismo.Questo approccio ha come caratteristiche fondamentali di essere endogeno; di contare sulle proprie forze (risorse naturali, umane, finanziarie, organizzative); di prendere come punto di partenza la logica dei bisogni (salute, istruzione, trasporti, infrastrutture collettive, ecc.); di dedicarsi a promuovere la simbiosi tra le società umane e la natura; di restare aperto al cambiamento istituzionale.
Il secondo concetto di fondo per immaginare una rinascita dei Balcani dovrebbe essere l'autogoverno delle comunità. C'è bisogno di ricucire, sulle macerie dei regimi e delle guerre, un rapporto fra cittadini e pubblica amministrazione fondato sulla partecipazione e su un diffuso sistema di autonomie locali anziché su rapporti gerarchici e di delega. In altre parole, un approccio comunitario capace di affrontare i bisogni individuali e collettivi in un'ottica diversa tanto dallo statalismo, quanto dalla privatizzazione mercantile di ogni segmento della vita economica e sociale di un territorio. A tal fine è necessario avviare percorsi di riforma, prima di tutto culturali ma anche istituzionali, che possano prefigurare nella relazione orizzontale fra regioni e municipalità una comune appartenenza europea, anche al di sopra delle frontiere "etnicamente pure".
Quest'appartenenza europea già si è manifestata negli anni scorsi attraverso le mille relazioni della cooperazione decentrata e della diplomazia delle città, che hanno cercato di ricostruire i ponti di dialogo e di civiltà demoliti dalla guerra. Si tratta senza dubbio di un'esperienza che prefigura un itinerario possibile di integrazione europea, alternativo rispetto a quello lento e burocratico dei governi. L'integrazione a partire dai cittadini, dai territori e dalle singole municipalità, immesse però in una rete virtuosa di partecipazione democratica, sviluppo locale e autogoverno. Per Di-Segnare, assieme, la nuova Europa.
Michele Nardelli, Osservatorio sui Balcani

Articolo uscito sulla Rivista Carta

Il senso di un Appello, nonostante la tragedia

01/10/2001 -  Anonymous User

(25.09.2001) "L'Europa oltre i confini" è il titolo dell'Appello a favore di un'integrazione rapida dei Balcani nelle istituzioni europee, che è stato presentato oggi in Campidoglio dai Sindaci di Sarajevo e di Roma. Ma che senso ha un Appello in questi giorni, in mezzo ai tragici fatti cui stiamo assistendo? A cosa può servire fare delle proposte di apertura, immaginare scenari nuovi di dialogo e di confronto con le aree geografiche "calde" del mondo, dopo che la follia omicida abbattutasi a New York e Washington ha innescato spirali tremende di vendetta e chiusura? Chi può ascoltare delle flebili voci, mentre siamo tutti assordati dai rumori di morte degli aerei caduti e di quelli che si preparano a bombardare?
Ce lo siamo chiesto anche noi dell'Osservatorio sui Balcani, organizzatori di questo evento assieme all'ICS - Consorzio Italiano di Solidarietà. E a momenti abbiamo pensato che forse no, forse in questo momento era meglio sospendere la presentazione e rimandarla più in là nel tempo. Forse aveva proprio ragione Nicola Matteucci, quando giustificava una possibile rappresaglia armata dell'occidente sostenendo che "il focolaio di un incendio va spento al più presto"; come dire che in certi momenti non servono parole, ma fatti. E però abbiamo deciso di andare avanti, nonostante o proprio in risposta al clima di lutto e disperazione che gela il mondo. Perché se l'incendio della violenza va spento, non è con altro fuoco che lo si può fare ma con l'acqua del ragionamento e della politica. Dunque anche con idee e suggestioni nuove per il futuro dell'Europa, oltre i suoi attuali e limitati confini.
La questione dei Balcani infatti non è una partita secondaria in un'area periferica del continente. I suoi non sono i vecchi problemi di una terra arretrata e pre-moderna, ma sono - come per altre zone del pianeta a torto ritenute marginali - le attualissime sfide di una società globale e post-moderna: si pensi all'economia finanziarizzata ed ai suoi intrecci con tutti i traffici che attraversano le rotte adriatiche, alla crisi di un welfare state strutturato al pari di quelli occidentali, ai temi della differenza, delle nuove cittadinanze e dei rapporti tra culture, alla crisi dei sistemi politici tradottasi in una forte personalizzazione del contendere e nella scomparsa dell'intermediazione dei partiti tra interessi individuali e luoghi decisionali. Tutte questioni che toccano tanto quelle aree quanto le nostre perché, per riprendere una metafora cara a molti, i Balcani sono lo specchio dell'Europa contemporanea, non la fotografia di quella ottocentesca.
Se tutto questo è vero, lanciare un Appello a favore di un'integrazione dell'area balcanica nelle istituzioni europee - ma sarebbe più corretto dire, a favore di un'integrazione tra Europa del sud est ed Europa del nord ovest - può essere una risposta almeno parziale alle crisi globali cui ci troviamo di fronte. Il testo della petizione suggerisce un'integrazione rapida, per poter dare a queste terre un'idea di futuro, una speranza certa che vada oltre la sopravvivenza nei micro-confini sorti con gli Accordi di Dayton. E insieme per spezzare prima possibile la catena delle rivendicazioni secessionistiche, che dopo la Macedonia potrebbe toccare Montenegro, Sangiaccato, Vojvodina, Istria croata e chissà quale altra piccola patria. Senza assolutamente negare loro il diritto all'autonomia locale, ma per definire assetti istituzionali stabili che superino in avanti, sciogliendole in unioni maggiori, le attuali suddivisioni statali.
L'Appello poi indica il bisogno di un'integrazione che sia sostenibile, ossia che possa garantire uno sviluppo stabile dei paesi balcanici fondato sulle loro peculiarità locali - uso razionale delle risorse naturali, turismo di qualità, agricoltura e industria di trasformazione, cultura... - piuttosto che sulle sottoproduzioni industriali, delocalizzate dall'Europa ricca per sfuggire alle regole ambientali e sociali che essa stessa si è data. Uno sviluppo autocentrato, dunque, dove l'economia ha molto a che fare con l'autogoverno locale (in un quadro federato, non secessionista) e con la responsabilità individuale.
Infine l'Appello indica la via delle relazioni tra comunità, tra singoli territori del sud est e del nord ovest d'Europa, come metodo migliore per praticare da subito la strada dell'integrazione. Prima e a fianco della via governativa, perché così è stato fatto - anche nelle molte esperienze dei comitati locali e dei comuni italiani - in questi anni di assenza e fallimento della comunità internazionale ufficiale nei Balcani. E perché solo così, forse, si può dare reale parità alle associazioni, ai gruppi, agli intellettuali locali per troppo tempo lasciati senza parola, emarginati dai governi nazionalisti in casa loro e inascoltati all'estero. Simbolicamente anzi l'Appello si apre con la frase di una di essi, Rada Ivekovic, e raccoglie sostegni importanti da tutti i paesi dell'area.
"L'Europa oltre i confini", dunque. Un sogno per il futuro lontano ma anche un orizzonte politico per il prossimo domani, sapendo che se è vero che per costruire l'attuale Unione Europea ci sono voluti quasi cinquant'anni, è altrettanto vero che nell'era attuale anche il tempo è cambiato: ciò che fino a ieri si misurava in decenni, oggi si compie in pochi anni. E' passato un lustro dalla caduta del muro di Berlino, eppure già gli attacchi criminali sugli Stati Uniti hanno segnato una nuova svolta epocale. Che non ci porta, come notava giustamente Stefano Bianchini in un'intervista concessaci alcuni giorni fa, verso un presunto "scontro di civiltà". Ma al contrario, sperabilmente, può aprire le porte ad un mondo che sappia andare "oltre i propri confini".

© Mauro Cereghini

A Venezia la conferenza sui rapporti con l'UE

29/09/2001 -  Anonymous User

Si terra' sul tema ''I Balcani e l'Unione Europea'' la conferenza internazionale organizzata dall'Aspen Institute Italia e dal Patto di stabilita' per l'Europa Sud Orientale per il 6 e 7 ottobre prossimi, al Lido di Venezia. Obiettivo dell'incontro, cui prenderanno parte politici, economisti, rappresentanti della diplomazia internazionale, e' di discutere modelli e strategie per giungere ad una maggiore cooperazione e integrazione tra l'Europa e l'area balcanica, per garantire sicurezza, stabilita' e democrazia in un'are ancora esposta a possibili conflitti.

FRY: la prima conferenza sulla ricostruzione ecologica della Jugoslavia

28/09/2001 -  Anonymous User

Ieri a Belgrado si è aperta la prima conferenza internazionale di quattro giorni sulla ricostruzione ecologica della Jugoslavia, denominata ENRY 2001. Come informa il quotidiano belgradese Danas, circa 500 partecipanti hanno considerato le conseguenze dei bombardamenti della NATO e le sanzioni che li hanno preceduti sull'ambiente della Jugoslavia , la questione principale ha riguardato l'impiego dell'uranio impoverito usato nelle munizioni, ed anche i problemi della sanità del cibo e dell'acqua, così come anche la possibilità della ricostruzione ecologica e del "risanamento" dei luoghi colpiti. Il premier serbo Zoran Djindjic, salutando i presenti, ha sottolineato che le istituzioni competenti lavorano alla ricostruzione dell'economia e alla preparazione di nuove normative che sistematicamente regoleranno il problema dell'inquinamento. "Benché non siamo vicini alla realizzazione di tutti i compiti ecologici, con questa conferenza saranno create le cornici per la loro attuazione" ha confermato Djindjic.Secondo le parole del presidente del governo la campagna ecologica in corso è legata a nuovi corsi economici, e il primo passo concreto sarà la creazione del nuovo ministero per le risorse naturali e per la protezione dell'ambiente. Questo ministero avrà competenze nella protezione delle risorse più importanti come l'acqua, l'aria e il suolo. Djindjic ha sottolineato inoltre come questo governo sia il primo in cinquant'anni ad avere una attiva politica ecologica.
Srdjan Popovic, consigliere del primo ministro per le questioni ecologiche, ha presentato la ricerca sull'ambiente che è stata approvata dal governo, ma ha espresso il desiderio che essa venga aggiornata e modificata secondo le conclusioni di questa conferenza.
I patroni d'onore della conferenza ENRY 2001 sono il patriarca Pavle e il presidente della FRY Vojislav Kostunica. Alla conferenza era presente anche la principessa Karadjordjevic, presidentessa d'onore, che è anche patrona della gara degli studenti sul tema "I giovani e l'ambiente". Fra gli altri hanno parlato i ministri Dragan Domazet e Branislav Lecic, così come anche l'ambasciatore della Svizzera in Jugoslavia. Iniziatori della conferenza sono state le professoresse Tatjana Jevremovic dell'università americana Poordew e la professoressa Jasmina Vujic dell'Università di Berkeley.

Il 'Forum dei cittadini di Srebrenica' denuncia il clima di corruzione in città

28/09/2001 -  Anonymous User

L'organizzazione non-governativa "Forum dei cittadini di Srebrenica" ha rivolto una lettera aperta (Glas Srpski- 20 settembre) alle organizzazioni internazionali attive in Bosnia-Erzegovina nella quale viene denunciato il clima di corruzione e malversazioni in cui è caduta la città. Non esenti da responsabilità sarebbero, secondo gli attivisti del Forum, anche alcuni rappresentanti internazionali o poco attenti a leggere i rischi della propria presenza e dei propri interventi nella realtà locale o personalmente coinvolti negli illeciti. Il Forum porta ad esempio l'apertura, tre anni fa, di un panificio a Srebrenica grazie a fondi dell'UNHCR . Il progetto era stato affidato ad un ONG locale. I macchinari, obsoleti, furono acquistati in Serbia ma venne presentata ai donatori internazionali documentazione falsa dove veniva dichiarato fossero nuovi. I lavoratori del panificio non ricevettero per ben 17 mesi lo stipendio ed infine vennero licenziati ed il panificio chiuso. Nonostante questo l'UNHCR ha stanziato recentemente altri 100.000 DM affidandoli alla medesima ONG il cui presidente, Stevan Janjic, si era comportato in maniera perlomeno ambigua.
Nella lettera aperta si chiede ai rappresentanti delle Nazioni Unite in Bosnia-Erzegovina di controllare e revisionare maggiormente le donazioni e gli investimenti della Comunità Internazionale a Srebrenica. Il presidente del Forum, Marinko Sekulic Kokeza, ha tenuto a sottolineare come nei sei anni successivi alla guerra Srebrenica, a causa della corruzione, ha subito un progressivo impoverimento. Nonostante la presenza internazionale e paradossalmente anche a causa della stessa.

Bosnia: anche l'ex generale Halilovic vola a l'Aja

27/09/2001 -  Anonymous User

E' partito per l`Aja Sefer Halilovic, il Ministro per i profughi in Bosnia Erzegovina in carica, che nel 1993 ricopriva la funzione di comandante dell'Armata Bosniaca

Croazia: Sanader e Seks nuovi sospettati dal Tpi?

27/09/2001 -  Anonymous User

Secondo quanto pubblicato dal quotidiano Slobodna Dalmacija del 15 settembre scorso, un testimone bosniaco presentatosi a L'Aja, avrebbe rilasciato dichiarazioni che accusano alcune personalità politiche croate - tra quali gli attuali presidente e vicepresidente dell' HDZ, Ivo Sanader e Vladimir Seks - di genocidio, per avere dirette responsabilità nell'uccisione di civili bosniaco-musulmani attuate dalle forze croate in Erzegovina. Ivo Sanader non ha voluto commentare le accuse a lui rivolte, delegando la segreteria del partito a rispondere sulla questione. E la segreteria ha risposto immediatamente con un comunicato, in cui viene dichiarato che le personalità sospettate parteciparono all'incontro avvenuto a Medjugorije nel 1993 con i comandanti delle unità paramilitari croato-bosniache, solo perché "spinti da buone intenzioni". Al contempo, sui quotidiani si sta dibattendo anche di altri processi in corso, tra i quali quello contro gli accusati per il massacro di Lika avvenuto nel 1991. A questo proposito, su Vjesnik del 17 settembre è apparso un commento in cui si sottolinea che le autorità statunitensi sono molto soddisfatte del fatto che tale processo si stia svolgendo a Rijeka - quindi sul suolo croato - anziché a L'Aja. Perché in questo modo l'ambasciatore americano Warren Zimmerman allora di stanza a Belgrado, non si troverà nella condizione di dover rispondere di fronte ad autorità giudiziarie internazionali sul ruolo degli Stati Uniti nella preparazione della guerra. E quindi non si approfondirà il ruolo di collegamento del principale imputato nel processo di Fiume - Tihomir Oreskovic - che rientrò nel paese alla vigilia degli scontri armati dopo esser stato negli anni ottanta un collaboratore dell'FBI, ma anche il ruolo degli agenti americani nell'attacco terroristico realizzato nell'autunno del 1991 contro il museo della Chiesa serba ortodossa di Zagabria.
Il processo di Fiume, ricominciato proprio il 17 settembre, vede gli imputati accusarsi vicendevolmente. Come scrive Novi list del 18 settembre, durante l'udienza l'ex generale Norac ha persino colpito con un pugno l'ex colonnello Oreskovic, accusandolo di essere responsabile del rallentamento del processo.